Da buoni italiani abbiamo un forte legame con le nostre radici, la nostra famiglia e la nostra storia. Fin da bambini siamo cresciuti condividendo le nostre esperienze con la nostra famiglia, fossero essi genitori, nonni, zii. Forse è proprio questo vivere in simbiosi con chi cromosomicamente ci somiglia ci rende più sensibili a rivivere il passato nei luoghi della nostra storia.
I prati di Santa Caterina, mi ricordano mio nonno, Giulio, qualcuno di voi ha avuto la fortuna di conoscerlo, ne sono sicuro! Era un uomo che racchiudeva in sè lo stereotipo del montanaro: folta barba bianca, cappello di panno,camicia di flanella e l’immancabile Nazionale rigorosamente senza filtro. Era un uomo dall’aspetto e dai modi a volte duri e spesso, soprattutto nei più giovani, incuteva quell’alone di soggezione, mista a rispetto. Amava incondizionatamente la sua famiglia e ne andava orgoglioso, per renderlo felice era sufficiente porsi un obiettivo comune e cercare di raggiungerlo unendo tutti quanti le forze;, per lui gli obiettivi primari, da buon montanaro, erano i rifornimenti di legna per la stagione invernale e la fienagione estiva per garantire scorte alla sua amata stalla; era un uomo in grado di ricucire ogni piccolo strappo all’interno della famiglia con un semplice sguardo.
C’è un piccolo prato a Santa Caterina, all’incrocio delle strade, in centro paese, di fronte alla residenza “Casa di riposo”. Ricordo un pomeriggio d’autunno, mio nonno era sceso con le sue mucche a pascolare in quel piccolo fazzoletto di terra e io l’avevo raggiunto, invitato da mio padre. Lo trovai sdraiato sul prato con il cappello abbassato sugli occhi in procinto di appisolarsi. Lo sveglia ed iniziammo a parlare, avevo più o meno 10 anni. Come ogni bambino avevo voglia di imparare, scoprire e non stavo mai fermo. Mio nonno mi disse: “Hai mai suonato un fiore?” io risposi sorridendo che non era possibile suonare un fiore, così lui prese il gambo di un dente di leone, lo spezzò e ci soffio dentro, ne uscì una specie di pernacchia, un sibilo vibrato. “Ecco”, disse, “ho suonato un fiore!”. Passai tutto il pomeriggio a suonare i fiori.
Ecco, quel piccolo triangolo in centro al mio paese conserva un pezzettino del mio grande nonno.
Alberto
“Questo paesaggio è mio padre”
Molti pensano alla montagna come ad un luogo “paterno” e al mare come un luogo “materno”. Maschile verticale, femminile orizzontale, ascensioni spirituali alla montagna, immersioni amniotiche nel mare.
Le sfumature paesaggistiche a cui vengono attribuite funzioni genitoriali sono infinite. Nel romanzo “Le otto montagne”, Paolo Cognetti narra la storia di silenzi paterni ed insegnamenti materni, educandoci all’idea che, in montagna, ognuno ha una “quota prediletta”, “un paesaggio che gli somiglia e dove si sente bene”. La quota prediletta dalla madre “era senz’altro il bosco dei 1500 metri, quello di abeti e larici, alla cui ombra crescono il mirtillo, il ginepro e il rododendro e si nascondono i caprioli”; lui era “più attratto alla montagna che viene dopo: prateria alpina, torrenti, torbiere, erbe d’alta quota, bestie al pascolo”. Dove invece “la vegetazione scompare la neve copre ogni cosa fino all’inizio dell’estate e il colore prevalente è il grigio della roccia, venato da quarzo e intarsiato dal giallo dei licheni”, lì cominciava il mondo di suo padre e dal padre cominciò “a imparare il suo modo di andare in montagna (…).
Spesso i nostri ricordi sono associati ad immagini binarie “paterno vs. materno; mare vs. montagna”, ognuno di noi è molto più di semplici congetture autoescludentesi.
Frugando nei ricordi avremo immagini di noi bambini per mano a nostra madre lungo un sentiero di montagna e impegnati in tuffi rocamboleschi con i nostri padri: “Cucire insieme gli opposti”.
Il riverbero dei ricordi ci porta nelle loro profondità. Anche un luogo può “riverberarci”, riconsegnarci un significato personale costruito a partire da lontane esperienze sensoriale ed emotive.
“Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della maddalena. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva? Che senso aveva? Dove fermarla? Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione per uno schiarimento decisivo. Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità…retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più…ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi…All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio”. (Marcel Proust, Dalla parte di Swann)
Ognuno di noi ha dentro di sé un luogo evocativo di tutto questo. Per molti la montagna è il luogo in cui risvegliare emozioni, ricordi, esperienze seppellite ed appartenenti ad epoche di vita passate; la montagna come “luogo interno” che diventa poi “geografia emozionale interna”; I diversi ambienti della montagna corrispondono a costellazioni emotive ed esperienziali in cui il nostro “Io” decide e preferisce abitare.
La montagna come custode di giornate con i nostri familiari, seduti su un plaid a scacchi, in un prato di quel verde intenso e netto che solo in montagna si può trovare, a mangiare panini dopo una camminata ai piedi del ghiacciaio. Cosa risuona in noi la traccia di un ricordo?
Nel ricordo del luogo noi rinsaldiamo il legame interno con quel luogo.
La mente in montagna si apre, accoglie, si lascia catturare e cullare dai panorami, dalle sensazioni, si lascia anche “spaventare” da esplosioni emotive interne a cui non siamo abituati perché in montagna, a volte, accade l’impensabile.
Nel 1958 viene coniato il termine “psicogeografia” per indicare lo studio degli effetti dell’ambiente geografico sul comportamento degli individui, ed è in montagna che si viene a creare una sorta di genius loci, “spirito del luogo”, concetto collettivo ed individuale che si costruisce nel tempo attorno a relazioni tra persone, oggetti, paesaggi: una sorta di autenticità dei legami.
In montagna si leggono e ci si orienta con le mappe, mappe che si creano e ci portano a pensare alla nostra biografia e quindi al nostro rapporto con i luoghi, proprio perché la nostra storia si dipana tra e nei luoghi.
Qual è il nostro luogo?
Paesaggio, quindi, non solo come luogo di cura ma anche come “luogo che cura”. C’è anche un paesaggio bisognoso di cure, un paesaggio fragile, in bilico tra passato e futuro, tra natura e memoria, il paesaggio dei ricordi, a cui attingiamo quando vogliamo evadere dalla nostra routine.
Il paesaggio diventa luogo invisibile, in cui mondo esterno e mondo psichico si incontrano, si confondono ed inaugurano nuovi confini. Il paesaggio è la nostra psiche nel mondo: dobbiamo ascoltarlo e rispettarlo per la sua capacità di sostenere la bellezza che ci offre.
Forse per questo fotografiamo i luoghi, per essere sicuri di tenerli dentro di noi?
Elettra
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