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Albergo Vedig Hotel S. Caterina Valfurva
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Il Dosso Tresero è un promontorio che, come un terrazzo, si affaccia sulla vallata della Valfurva e permette all’osservatore di avere un punto privilegiato da cui esplorare la morfologia del nostro territorio. Da quì è possibile osservare come si sviluppa l’abitato di Santa Caterina, come sono state disegnate le piste da sci e come, in tempi passati, venivano scelti i luoghi migliori dove costruire le “baite”, alpeggi estivi per il bestiame. E’ possibile raggiungerlo tramite diversi itinerari, passando dalla Valle dei Forni, lungo il sentiero che dal rifugio Berni attraversa la Valle del Gavia, oppure direttamente da Santa Caterina risalendo La Romantica. E’ un posto al quale sono particolarmente legato in quanto, specialmente negli ultimi anni, ho avuto modo di riscoprirlo mettendomi alla prova nei tratti scoscesi dei suoi pendii, in sella alla mia mtb.

Quando raggiungo la panca posta in cima al dosso mi fermo sempre a risistemare la mia attrezzatura,i prima della discesa, e in quel momento lascio che lo sguardo si perda fino in fondo alla vallata. Osservare Santa Caterina dall’alto, mi rimanda sempre  alla sensazione della piccolezza dell’uomo di fronte all’enormità della natura; se tengo chiuso un occhio Santa Caterina resta dentro un mio pugno, il resto è tutto un susseguirsi di prati, boschi, rocce e ghiacciai. L’ aspetto che più mi stupisce, però, sono le emozioni che quel luogo mi regala a seconda del mio stato d’animo e della stagione. E’ impossibile descriverle, bisogna viverle nella consapevolezza che difficilmente ritorneranno...

Alberto

Al concetto di landscape, possiamo aggiungere quello di “walkscape”, paesaggio che si costruisce mentre lo camminiamo, mentre lo attraversiamo.

Per ritrovare noi stessi, dobbiamo affiancare all’esplorazione del mondo interno, quella dei nostri paesaggi, che però rimangono oggetti indefinibili, ambigui e sconfinati, poiché l’esperire l’emozione di un panorama non potrà mai essere comunicata verbalmente, resta quasi impossibile trasferire i contenuti e i “sensi” che noi creiamo nell’essere immersi nella contemplazione di un paesaggio.

L’indescrivibilità del paesaggio corrisponde all’inesprimibilità del tempo presente: noi non potremmo mai descrivere il tempo presente perché nel momento in cui ci accingiamo a farlo è già passato; allo stesso modo non potremmo descrivere e cogliere ciò che si evoca in noi nell’osservare un paesaggio proprio perché non è verbalmente catturabile. Solo i nostri sensi ed i nostri vissuti emotivi potremmo riuscire in questa impresa, ma poiché il nostro mondo interno è talmente privato e razionalmente non-pensabile, dovremmo, di default, dichiarare la resa.

Deridda scrive:

(…) Quando incrocio il tuo sguardo, io vedo sia il tuo sguardo, sia i tuoi occhi (…) e i tuoi occhi non sono soltanto vedenti, ma visibili allo stesso tempo (…)”

Del resto il paesaggio è creato, distrutto e ri-creato da innumerevoli menti che lo attraversano, ridefinendo uno stesso panorama in “n” possibilità; nessun paesaggio sarà uguale agli occhi di chi lo percorre, poiché è la stessa persona che attraversandolo, scoprendolo, lo crea. 

“Camminiamo il paesaggio”, passo dopo passo, nella nostra scelta di percorrerlo, nella nostra solitudine, lasciandoci aperti a farci attraversare dai flussi energici della natura, ritirati nel nostro silenzio ma disposti all’ascolto delle vibrazioni della montagna; diversamente, decidiamo di costruire il paesaggio, affiancati da altri passi, ognuno avrà il suo ritmo di costruzione del cammino, chi lento, chi più frenetico, chi affaticato, chi rigenerato, chi voglioso di arrivare alla meta. Nel camminare definiamo il nostro sentiero interno, che non sempre corrisponde alla reale natura del percorso intrapreso, è in esso che proiettiamo il nostro mondo interno e sarà, soltanto, nel ricordo a posteriori che quel sentiero si colorerà delle tinte con cui lo abbiamo “camminato”. 

Ogni volta che entriamo nel paesaggio e lo lavoriamo, lo percorriamo, lui lavora in noi, lui percorre i nostri pertugi interni, scava, raccoglie, custodisce, crea quelle memorie interne del paesaggio esterno.

Se il nostro rapporto con il paesaggio prende vita nell’incontro tra percezione, memoria, cognizione e risonanze emotive, l’idea di “paesaggio mentale” non può che contenere quella di brainscape

Cosa ci insegnano le neuroscienze sul nostro modo di creare e guardare un paesaggio? 

Stando ad una recente ricerca sui neuroni specchio, la valutazione estetica di prodotti artistici, sia che ritraggano soggetti umani che scenari naturali, implica l’attivazione spontanea di componenti motorie e dunque quella che i neuroscienziati definiscono: “simulazione incarnata”- “embodied”. Sappiamo che i sistemi neurali che si attivano quando eseguiamo azioni o facciamo esperienza di sensazioni o emozioni soggettive, si attivano anche quando riconosciamo negli altri tali azioni, emozioni e sensazioni; più semplicisticamente avviene una sorta di “contagio”: l’attivazione sensoria e viscero-motoria nel cervello di chi osserva, di chi attraversa un bosco, di chi sale una vetta, sarebbe responsabile di una “sintonia” tra chi osserva e ciò che viene osservato, si diventa un tutt’uno con ciò che percorriamo internamente ed esternamente.

Colui che decide di incamminarsi per sentieri a lui sconosciuti, può percepire in sé, la genesi di quella sensazione di estasi sublime, che genera, quasi turbamento. L’illimitatezza della natura, di un cielo estivo stellato, o di una luna piena invernale, si manifesta non soltanto come estensione dei sensi ma come potenza. Il paesaggio sublime può generare quella che Kant definirebbe esperienza nouminosa, sacra e del totalmente “altra”, mistero tremendo e allo stesso tempo affascinante. L’occhio viene rapito, disincantato, intrappolato in una dimensione al limite dell’onirico.

Viene da pensare se lo sviluppo delle tecnologie, del turismo di massa, hanno definitivamente compromesso la nostra possibilità di sperimentare il sublime.

Quanto l’essere umano è ancora in grado di stupirsi?

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